Economia e Diritto

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Video porno di Belen. Procedimento archiviato. Per la Procura di Milano non ci sono prove

La Procura della Repubblica di Milano ha chiesto l’archiviazione del procedimento penale. Ma cosa prevede il codice per fatti simili?

Il filmato messo in rete lo scorso autunno ritraeva una giovanissima Belen Rodriguez in intimità con un suo ex fidanzato. La Procura della Repubblica di Milano aveva aperto un fascicolo per l’ipotesi di reato di diffusione di materiale pedopornografico (si riteneva che la show-girl all’epoca fosse minorenne) e per tentata estorsione (pareva fosse stato chiesto una somma in cambio della non diffusione del video). Ora la Procura ha chiesto l’archiviazione del procedimento in quanto mancherebbero le prove sia della minore età che del ricatto.
Ma tralasciando la peculiarità di questo fatto cronaca, cosa rischia chi decida di diffondere in rete immagini di un’altra persona in atteggiamenti intimi?
Se le immagini vengono carpite in luogo di privata dimora e senza il consenso dell’avente diritto la pena è fino a quattro anni di reclusione (art. 615 bis del Codice Penale).
Se invece il consenso alla registrazione vi era, la diffusione è punita con la reclusione fino a tre anni purchè essa sia stata realizzata con la finalità di provocare un danno o di trarne profitto e sempre che essa abbia determinato un nocumento alla vittima (in tal caso è applicabile la normativa sul trattamento e la diffusione dei dati personali sensibili tra cui risultano compresi quelli rivelativi della vita sessuale).
In aggiunta potrebbe anche configurarsi il reato di diffamazione per la lesione della reputazione che dalla diffusione delle immagini possa derivare.
Il fenomeno pare purtroppo di assoluta attualità e in preoccupante espansione. Gli strumenti offerti dalla legge per punire, impedire o quantomeno limitare la diffusione illecita di immagini sono sicuramente inadeguati. In mancanza, dunque, di una cura efficace non rimane che una prudente prevenzione!

Crisi Spagna. Standard & Poor’s declassa il debito da ”A” a ”BBB+”

L’agenzia di valutazione americana ha spiegato i motivi del downgrade

La famosa e ormai famigerata agenzia di rating economico Standard & Poor’s ha abbassato la valutazione a lungo termine del credito della Spagna, che è passata dal precedente “A” a “BBB+”. Il rating a breve termine è invece passato da “A1” ad “A2”. La società americana ha spiegato che il declassamento è dovuto al “deterioramento della traiettoria del deficit di bilancio per il periodo 2011-2015 in contrasto con le precedenti previsioni” e alla
“probabilità che il governo debba fornire un nuovo sostegno finanziario al settore bancario”. Standard & Poor’s ha tagliato anche il rating di Fiat, portandolo da “BB-” a “BB”. Il taglio rispecchia prima di tutto “la debole performance di Fiat in Europa”. L’outlook è stato mantenuto tutto stabile a causa della “adeguata liquidità e della ripresa di Chrysler”.

Guida ubriaco, ma la fa franca perché il test viene eseguito fuori tempo massimo

Una innovativa sentenza del Tribunale di Brescia

Molto interessante è il principio che viene affermato in una recente e innovativa sentenza (Tribunale di Brescia, 14/01/2011 n.173) secondo la quale la positività all’alcoltest non assicura la prova della guida in stato di ebbrezza quando l’esame viene eseguito ad una eccessiva distanza di tempo dal momento in cui l’automobilista è stato fermato dalla polizia. Nel caso di specie, erano passati 45 minuti.
Il ragionamento del Giudice si è basato sulla considerazione che la presenza di alcool nel sangue segue un andamento a parabola partendo da valori di ingresso – sostanzialmente bassi – per poi incrementare sino al livello di massima intossicazione e, da lì, scendere sino all’annullamento. Per comprendere quindi se l’andamento sia in incremento o in decremento, sarebbe necessario compiere un particolare esame clinico detto “curva alcolemica”, esame che nel caso in questione non era stato eseguito (e che come noto non viene pressoché mai eseguito).
Ne deriva che, ove l’accertamento del tasso alcolemico sia effettuato a distanza dal momento del fermo, non è possibile prescindere dall’assorbimento dell’etanolo destinato a giocare un ruolo determinante soprattutto nei casi in cui non si è in grado di comprendere se al momento dell’accertamento l’organismo si trovasse nella fase ascendente della curva alcolemica ovvero in quella discendente, con la conseguenza che, in tali casi, viene a mancare la prova sicura dell’intossicazione al momento della conduzione del mezzo. Per questi motivi l’automobilista fermato è stato assolto dal reato di guida in stato di ebbrezza.
Se da un lato questa sentenza si fa apprezzare per la rigorosità della prova che richiede ai fini della condanna, dall’altro non potrà che indurre atteggiamenti “furbetti” da parte di automobilisti che le proveranno tutte per ritardare il test e sperare così di farla franca.

Guida in stato di ebbrezza. Lavoro non retribuito per evitare la condanna penale

E’ ora possibile evitare le più gravi sanzioni e conseguenze dichiarandosi disponibili a lavorare per la società

A chi non è capitato di uscire dal ristorante sperando di non incontrare una pattuglia della Polizia. Si perché basta davvero poco per essere dichiarati in stato di ebbrezza e andare così incontro a danni enormi. C’è anche chi ha perso il lavoro in seguito alla sospensione della patente che ne consegue. Non solo ma se il tasso alcolico è superiore a 0,8 (potrebbe essere sufficiente una birra) si dovrà anche subire un processo penale e quindi trovarsi poi la cosiddetta fedina penale non più linda. In certi casi è prevista anche la confisca dell’auto (l’auto viene messa all’asta e venduta anche se trattasi di automobile di valore).
Ora però esiste un utile rimedio. Salvo che si sia determinato un incidente stradale, è possibile chiedere di essere sottoposti a lavoro non retribuito di pubblica utilità. In tale modo si eviterà condanna penale, sanzioni pecuniarie, confisca dell’auto e la durata della sospensione della patente sarà dimezzata. Questo è quanto dispone il comma 9 bis recentemente inserito nel corpo dell’art. 186 del Codice della Strada.
Finalmente anche il nostro ordinamento inizia a fare ricorso a pene alternative basate sulla punizione e rieducazione attraverso il lavoro di pubblica utilità, esperienza già da tempo proficuamente maturata in numerosi altri sistemi soprattutto di matrice anglosassone.

Omicidio stradale è il nuovo reato per punire più severamente chi guida in stato di alterazione

La richiesta arriva principalmente dai familiari delle vittime della strada

Il governo sarebbe al lavoro per introdurre il reato di «omicidio stradale». Esattamente ciò che da anni chiedono associazioni varie, a partire da quella dei familiari delle vittime della strada.
A quanto si legge la nuova imputazione riguarderebbe, in caso di incidente mortale, chi venisse trovato con un tasso alcolico superiore a 1,5% o sotto l’effetto di stupefacenti.
La finalità pare essere quella di sanzionare più gravemente e con un reato specifico la condotta oggi sanzionata genericamente (e blandamente sotto il profilo penale) col reato di omicidio colposo e col reato di guida in stato di ebbrezza o di alterazione per assunzione di stupefacenti.
Occorrerà leggerne la bozza giudicare da un punto di vista tecnico giuridico la norma che sta per essere predisposta.
Quello che in prima battuta si può osservare è che la nostra cultura giuridica (e il nostro senso comune) sente sempre più il bisogno di creare forme di punizione che contemplino in modo autonomo quelle forme di volontario aumento del rischio della propria condotta, una sorta di terzo profilo di responsabilità a mezza via tra la colpa e il dolo oggi presenti nel nostro ordinamento. Una terza via tra la semplice negligenza e la vera e propria volontarietà del fatto di reato. E’ come dire, anche se non l’ha voluto se lo è proprio andato a cercare, quindi è meritevole di una sanzione specifica e appropriata per questo atteggiamento.

Botox sotto processo. La tossina botulinica può provocare paresi e allergie

La Procura di Torino ha aperto un fascicolo. Cosa dice la giurisprudenza a riguardo?

Il Procuratore della Repubblica di Torino Guariniello sta indagando sull’utilizzo pericoloso della tossina botulinica che secondo le indicazioni dovrebbe essere utilizzata per finalità estetiche solo per le rughe tra le sopracciglia mentre potrebbe provocare paresi o allergie se utilizzata, come spesso accade, anche in altri punti. E’ di ieri la notizia che la Procura di Torino sta svolgendo indagini dopo la segnalazione arrivata da una donna che a seguito del trattamento aveva avuto dei problemi dermatologici al viso.
La tossina botulinica è frequentemente usata in medicina estetica per distendere le rughe, ma essa risulterebbe approvata come farmaco dall’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) solo per il trattamento delle rughe glabellari (quelle tra le sopracciglia) mentre non ne sarebbe mai stato autorizzato l’uso in altri punti del viso come occhi, fronte, labbra e collo dove potrebbe esporre i pazienti a seri rischi quali la compromissione dell’uso dei muscoli della masticazione, creare problemi al linguaggio, parestesie, debolezze muscolari oltre a reazioni allergiche e disfunzioni oculari.
Dopo la segnalazione, quindi, sarebbero iniziate indagini ed accertamenti e staremo a vedremo quali sviluppi avranno.
La giurisprudenza sul tema delle infiltrazioni di tossina botulinica a fini estetici (si veda TAR Lazio 15 febbraio 2008) aveva già chiarito che le stesse possono essere effettuate solo dal medico (sono escluse quindi estetiste, infermieri etc.), anche se non è necessario che il medico sia in possesso di specifiche specializzazioni (Chirurgia Plastica, Maxillo Facciale, Dermatologia, Oftalmologia).

Imprescindibile è invece che il medico acquisisca dal paziente il cosiddetto "consenso informato" al trattamento. Sarà quindi obbligo del medico (Cass. penale 8 maggio 2008) comunicare non solo il prodotto che intende somministrare, ma anche (e soprattutto nel caso di trattamenti che non sono diretti a contrastare una patologia, ma con finalità esclusivamente estetiche) gli eventuali effetti negativi della somministrazione in modo che sia consentito al paziente di valutare congruamente il rapporto costi-benefici del trattamento e di mettere comunque in conto l’esistenza e la gravità delle conseguenze negative ipotizzabili.
L’informazione deve essere offerta in modo comprensibile al paziente (anche in relazione alla sua cultura) e avere ad oggetto diagnosi, prognosi, eventuali alternative di intervento, rischi e possibili complicanze, decorso post-operatorio, eventuali risultati conseguibili.

Per quanto concerne il limite di età per l’accesso ai trattamenti di chirurgia estetica, la regola generale nel nostro Paese è che nessun trattamento può essere disposto su un minore senza il consenso di chi sia legittimato ad esprimerlo (genitori o in certi casi è chiamato a intervenire il Giudice Tutelare).

Sequestro illegittimo, prova valida. Quando il fine giustifica i mezzi

Se l’esito di una perquisizione illegittima è il sequestro del corpo del reato, la prova che si è così acquisita è utilizzabile

Chi di noi non riterrebbe inaccettabile subire una perquisizione immotivata e ingiustificata sulla persona, nell’abitazione, nell’autovettura. La nostra Costituzione e le nostre leggi infatti circoscrivono l’ingerenza della Pubblica Autorità nella sfera individuale a determinate condizioni onde evitare atti arbitrari. Inoltre è stabilito che le prove acquisite in modo illegittimo non sono utilizzabili. Eppure la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha affermato che, se l’esito di una perquisizione illegittima è il sequestro del corpo del reato, la prova che si è così acquisita è utilizzabile.
Si era trattato del sequestro di 31 grammi di cocaina effettuato da un ufficiale di Polizia Giudiziaria nel corso di una perquisizione domiciliare non autorizzata e non eseguita nei casi e nei modi previsti dalla legge. Perquisizione illegittima, sequestro valido. Come dire, il fine giustifica i mezzi!

Sentenza Eternit. Ecco perché è così importante e innovativa

Un’altra sentenza che condanna gli imprenditori non a titolo di colpa ma a titolo di dolo

Dopo la sentenza Tyssen di nuovo e a breve distanza viene emessa un’altra sentenza che condanna degli imprenditori non a titolo di colpa ma a titolo di dolo, cioè non per avere negligentemente determinato gravi danni, ma come se questi danni li avessero proprio voluti determinare. E’ come dire che investire una persona in auto in un sinistro stradale provocandone la morte, in certi casi può essere parificato ad ucciderla volontariamente con una pistola. Questo è il dato più rilevante e significativo della pronuncia (di cui bisognerà comunque attendere la motivazione per valutarne gli aspetti più profondi anche sotto il profilo giuridico). La portata e le conseguenze, oltre che per gli operatori del diritto, potrebbero riguardare anche la società civile in senso più ampio, avere cioè una ricaduta culturale notevole.
Saremo portati più frequentemente a ritenere che le conseguenze di nostre azioni realizzate con particolare indifferenza e trascuratezza sono meritevoli della stessa punizione prevista per gli stessi fatti volontariamente commessi. Del resto era già così per gli antichi Romani che equiparavano la grave negligenza al dolo.

Fuga dall’altare. Il promesso sposo costretto a pagare i danni

La rottura della promessa di matrimonio senza un giustificato motivo viola le regole generali in tema di correttezza

Con una delle prime sentenze dell’anno 2012 (sentenza civile n. 9) la Cassazione si è espressa in tema di risarcimento dei danni provocati dal promesso sposo che si defila ad un passo dal fatidico sì. Secondo la Suprema Corte la rottura della promessa di matrimonio senza un giustificato motivo viola le regole generali in tema di correttezza e di auto responsabilità. Ciò comporta l’insorgenza dell’obbligo di risarcire i danni materiali che ne sono derivati (tutte le spese sostenute e le obbligazioni contratte).
Non sono invece risarcibili i danni morali per le sofferenze subite dall’abbandonato in quanto in ogni caso va anche tutelata la libertà di scelta fino all’ultimo momento senza che essa subisca restrizioni o condizionamenti.

La banca non risponde se paga un assegno con firma falsificata

La Cassazione ribadisce che la banca risponde solo se la falsificazione è grossolana ed evidente

Non c’è da stare particolarmente tranquilli nel lasciare i nostri soldi in banca, anche perché, contrariamente a quanto sarebbe normale ritenere, se la Banca paga per errore un assegno con firma diversa dalla nostra, può non doverne rispondere. Ma come, si potrebbe pensare, se non sanno fare il loro mestiere, dovranno pure farsene carico! Invece la Cassazione ha più volte ritenuto che la banca deve rispondere solo se la falsificazione della firma del cliente apposta sull’assegno sia rilevabile ictu oculi, cioè sulla base di una diligenza media. In sostanza solo quando la falsificazione è veramente grossolana.