La verità non teme nessun libro. La menzogna, sì

La cronica malattia della sinistra italiana è sempre stata quella di screditare e di ridicolizzare tutti coloro che osano mettere in discussione la “verità rossa” e i suoi dogmi.

Un giovane di sinistra che scaraventa una copia del libro sul tavolo, si avventa contro l’autore ed urla: “Lei ha scritto un libro infame per fare soldi sulle spalle della Resistenza”; una ventina di giovani dei centri sociali che occupano la sala, srotolano striscioni rossi con le scritte “Revisionisti assassini” e intonano “Bella Ciao”; schiaffi ed insulti tra i presenti. Solo in serata l’autore riesce a parlare al suo pubblico. Questa l’amara cronaca della presentazione di un libro a Reggio Emilia, storica terra di passioni civili, di lambrusco e di tricolori al vento. Il libro in questione, “La grande bugia”, è l’ultima fatica letteraria di Gianpaolo Pansa, giornalista “ammattito” colpevole solamente di aver denunciato, nei suoi libri, la colossale mistificazione della quale è corroborata gran parte della storia della Liberazione e della Resistenza. Un tabù supremo, insomma.
Pansa, infatti, definisce coraggiosamente “grande bugia” la ricostruzione fantasiosa di una Resistenza eroica, di massa, alla Steven Spielberg, mentre la realtà di quegli anni feroci è stata ben altra. Scrive Pansa: “La resistenza l’ha fatta per il novanta per cento il Partito Comunista Italiano. Senza il Pci la resistenza non sarebbe mai esistita. La guerra partigiana è stata solo la prima fase di un progetto che prevedeva l’avvento sanguinoso della rivoluzione proletaria. Mentre, per i loro veri obiettivi, i partigiani facevano fuori i nemici del popolo, il popolo, quello vero, restava in disparte. Il consenso di massa non c’è mai stato: la zona grigia io l’ho vissuta a Casale Monferrato, quella delle campagne dove i contadini non ne potevano più né dei tedeschi, né dei fascisti, né dei partigiani che erano dei gran razziatori”.
L’infamia peggiore diffusa dal povero Pansa consiste nell’affermare che non c’è stata nessuna insurrezione. Semmai, c’è stato solo l’arrivo degli Alleati. “Dopo è solo cominciata una mattanza.” “La grande bugia” rappresenta anche la denuncia verso coloro che non vogliono accettare l’elementare verità che la guerra si combatte in due, ma poi si pretende che la storia la scrivano solo i vincitori.
Pansa continua il suo lungo racconto, iniziato nel 2002 con "I figli dell’Aquila" e proseguito con "Il sangue dei vinti" e "Sconosciuto 1945", dove emergono nuove testimonianze inedite, nuove voci inascolate provenienti dal mondo dei fascisti sconfitti.
Ma il cuore del libro è un altro, ed è rivolto all’oggi. C’è il diario delle esperienze di Pansa come autore di ricerche sulla guerra interna, c’è la sua risposta alle stroncature più acide. Ed, infine, c’è la ricostruzione di vicende accadute ad autori osteggiati da coloro che uno storico, pure avverso ai libri di Pansa, ha definito i Guardiani del Faro Resistenziale.
Inutile dire che, prima dell’uscita del libro, i più autorevoli e referenziali storici indipendenti (cioè quelli di sinistra) avevano già scomunicato il Pansa e le sue eresie fascistoidi bollandole come “frutto della vulgata antiresistenziale”.
Ma questa è sempre stata la cronica malattia della sinistra italiana, quella, cioè, di screditare e di ridicolizzare tutti coloro che osano mettere in discussione la “verità rossa” e i suoi dogmi. La verità (senza colore, senza sapore, senza scadenza) non ha paura di libri e di indagini storiche, la menzogna sì.
E di menzogna pura si tratta quando si nega che gruppi partigiani, soprattutto quelli di ispirazione comunista, avessero scatenato un’orrenda caccia all’uomo contro chiunque avesse, anche vagamente, avuto a che fare con il fascismo. Alcuni mesi dopo la fine della guerra si ebbe il massacro delle carceri di Schio dove oltre cinquanta fascisti con presunte responsabilità vennero di notte ammassati in un locale comune e uccisi. Ma le uccisioni proseguirono per alcuni anni, e ne fecero le spese anche molti religiosi (un centinaio nella sola Emilia Romagna) e gente solamente responsabile di essere proprietari di un appezzamento di terra o di essere dirigenti d’azienda (nemici del popolo). Uomini ritenuti scomodi dal partito comunista, che aveva creato un suo stato nello stato, furono condannati a morte, e gli autori di simili atti, quando la giustizia stava avvicinandosi a loro, vennero fatti fuggire in Cecoslovacchia. Balle per la sinistra, verità per il resto del Paese.
Insomma, quanto accaduto a Reggio Emilia, gli spintoni, le urla, gli insulti, dimostrano ancora una volta, che certa sinistra è ben ancorata alla logica del “taci, tu che sei fascista”, che è poi la logica violenta e sanguinaria del sasso in bocca. Ma quella, cari signori, lasciamola alla mafia.

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