Calcio. Confederations Cup 2013. L’analisi delle 8 partecipanti

Un ”mini Mondiale” che ha trovato stabilità a partire dall’edizione tedesca del 2005

Il “mini Mondiale”. Ecco forse la definizione più adatta a quello che è diventata la Confederations Cup da quando passata sotto l’egida della FIFA (1997, Arabia Saudita), ma soprattutto da quando si disputa con cadenza quadriennale, l’anno precedente al Campionato del Mondo, nel Paese in cui questo si giocherà (2005, Germania). Nella storia della manifestazione vengono incluse anche le edizioni del 1992 e del 1995, organizzate sempre in Arabia Saudita con la denominazione “Coppa re Fahd”. L’albo d’oro è guidato dal Brasile, a quota 3, seguito da Francia a 2 e Messico, Danimarca e Argentina a 1.
Un “mini Mondiale” che ha trovato stabilità di formula nel riunire i 6 campioni continentali (l’America viene considerata divisa in 2), i Campioni del Mondo in carica e il Paese organizzatore della competizione iridata.
Per quest’ultimo è un banco di prova importante, sia dal punto di vista tecnico che da quello organizzativo. Aspetto quest’ultimo particolarmente importante se lo Stato in questione nel prossimo triennio ospiterà, oltre appunto ai Campionati del Mondo, i Giochi Olimpici. Aspetti strettamente collegati se lo Stato in questione risponde al nome di Brasile.
Da questo partiamo per un’analisi delle 8 partecipanti.
GRUPPO A: Brasile: deve convincere ma possibilmente non vincere. Questo il paradosso della Nazionale di “Felipão” Scolari, che ha il difficile compito di trovare la quadratura del cerchio, riconquistare critica e tifosi e… non alzare la coppa. Sì, perché chi ha vinto la Confederations, l’anno successivo non ha mai vinto i Mondiali. Per evitare, 64 anni dopo, un altro “Maracanazo”, anche i brasiliani, notoriamente poco superstiziosi, sembrano disposti a sopportare una sconfitta onorevole. Tutto, o quasi, ruota intorno alle lune di Oscar ma, soprattutto, di Neymar.
Giappone: primi a qualificarsi ai Campionati iridati, in crescita continua, di personalità ma soprattutto tecnica. Zac ha portato realismo e ulteriore acume tattico. L’esperienza maturata da molti giocatori in Europa, la finalmente raggiunta patente da leader di Honda, ma soprattutto la forza del collettivo per stupire quest’anno e ancora di più il prossimo.
Italia: cancellare il brutto ricordo di 4 anni fa continuando nel solco dell’ottimo lavoro svolto sinora, con il mirino ben puntato sull’obiettivo finale: Brasile 2014. Questo l’obiettivo della Nazionale di Cesare Prandelli, nelle ultime uscite apparsa clamorosamente fuori condizione, ma che quando conta c’è, eccome se c’è: una sola sconfitta ufficiale durante la gestione del tecnico bresciano. Da cercare, e possibilmente trovare, il modulo che permetta ai nostri di esprimersi al meglio; da ritrovare El Shaarawy e una certa solidità difensiva.
Messico: la generazione dell’oro olimpico non vuole rimanere incompiuta come quella del trionfo ai Mondiali Under-17 di 8 anni fa. Trait d’union, l’ex blaugrana Giovani Dos Santos. Squadra sempre difficile da affrontare (noi non li battiamo da 20 anni, al Brasile hanno sfilato il tanto atteso alloro a Londra 2012), con il rischio di avere la testa alle qualificazioni mondiali che non li avevano mai messi tanto in difficoltà.
GRUPPO B: Nigeria: le “SuperAquile” sono tornate a volare alto grazie ad uno dei tanti allenatori locali snobbati: Stephen Keshi. Via le teste calde per avere uno spogliatoio più unito e grande personalità nei sempre importanti, e delicatissimi, rapporti con la Federazione. Questa la ricetta dell’ex difensore in campo ad USA ’94, che si affida a ben 7 “profeti in patria” e alla leadership dell'”inglese” Obi Mikel.
Spagna: i nuovi re Mida del calcio alla prova dell’unico materiale che non sono ancora riusciti a trasformare in oro. Le indicazioni parlano di un ritorno al “9” classico e di ben pochi esperimenti. I pericoli sono un naturale appagamento da vittoria accompagnato dal possibile logorio di uno stile di gioco che ha già fatto la storia. A Del Bosque il compito di allontanare ulteriormente la fine di un impero su cui non sembra voler mai tramontare il sole.
Tahiti: il convitato di pietra, la vittima chiaramente e clamorosamente sacrificale. Per i “guerrieri di ferro” guidati dall’esperto attaccante Marama Vahirua segnare un gol o tenere la porta inviolata, anche in una sola occasione, sarebbe già un’impresa clamorosa.
Uruguay: grande sostanza, tanti vecchi bucanieri e una delle coppie d’attacco potenzialmente più forti del mondo. Potenzialmente perché se Luis Suarez è un iradiddio (e un esempio di correttezza!) anche con la “camiseta”, non altrettanto si può dire del suo compagno di reparto Edinson Cavani, a volte soffocato da un sistema di gioco troppo rigido e a volte dall’ingombrante ombra del totem Forlan. Se miscelata nel modo giusto, la miscela diventerebbe potenzialmente esplosiva.

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